Ogni qual volta che due persone s’incontrano ci sono in realtà sei persone presenti. Per ogni uomo ce n’è uno per come egli stesso si vede, uno per come lo vede l’altro e uno per come egli realmente è.

 

William James

 

 

La valutazione psicodinamica (assessment) è strettamente interrelata alle informazioni che derivano dalla raccolta anamnestica, dall’osservazione clinica effettuata durante l’incontro e dalla lettura dei segni e dei sintomi che il paziente manifesta sia direttamente (consapevolmente) sia indirettamente (inconsapevolmente).

Il primo atto di una valutazione dinamica è l’incontro. Attraverso di esso clinico e paziente entrano in contatto per la prima volta portando all’interno del “campo” aspettative e desideri. Lo strumento d’elezione che viene utilizzato in questa prima fase è l’intervista psicodinamica che ha l’obiettivo non solo di ottenere informazioni utili al clinico per orientarsi nel disagio del paziente ma anche di stabilire un contatto che crei una cornice in cui il paziente può sentirsi accettato.

Esistono inoltre alcuni elementi di fondamentale differenza fra un approccio medico alla diagnosi ed un approccio dinamico. In primis il medico segue un percorso diretto che attraverso i segni che il paziente manifesta porta all’eziologia del disturbo e alla sua patogenesi. Quando si ha a che fare con un disturbo fisico, generalmente i pazienti sono estremamente collaboranti con il clinico al fine di risolvere il proprio problema. I disturbi della sfera emotiva invece possono essere visti come una sorta di adattamento funzionale del paziente al suo ambiente. Le persone possono quindi manifestare intensi sentimenti contrastanti rispetto alla possibile scomparsa dei sintomi. Se da un lato vogliono spesso un sollievo dall’altro i clinici si trovano a dover affrontare la giungla delle resistenze che tentano di proteggere il sistema precostituitosi.

Altro aspetto da considerare è l’imbarazzo, la vergogna e il disagio che possono manifestare i pazienti rispetto ai propri sintomi.

L’approccio psicodinamico lega intimamente la diagnosi e la terapia. anche il modo attraverso il quale l’anamnesi viene raccolta può essere di per sé terapeutica.

Una differenza sostanziale fra un approccio medico e un approccio psicodinamico è il ruolo che riveste il del paziente. Nel primo caso esso appare come un partecipante passivo che contribuisce alla valutazione del medico rispondendo semplicemente ad una serie di domande. Nel secondo caso il paziente viene coinvolto attivamente nel processo diagnostico che è essenzialmente un processo esplorativo sull’hic et nunc e sul mondo intrapsichico della persona che per definizione è senza tempo e senza spazio.

Proprio per questo motivo l’obiettivo dello psicologo ad orientamento dinamico è quello di favorire il flusso associativo del paziente al fine di ottenere informazioni sia sul mondo interno sia sul funzionamento relazionale ed emotivo. Per tale ragione egli non cercherà di rassicurare il paziente durante il colloquio anche se esso può manifestare una certa quota d’ansia ma cercherà invece di utilizzare tale aspetto come una risorsa, una sorta di porta di accesso ad alcuni aspetti del funzionamento del paziente e del suo disagio. Ad esempio uno psicologo dinamico potrebbe dire al paziente che manifesta dell’ansia durante il colloquio di consultazione una frase del tipo “Mi sembra che lei sia leggermente ansioso in questo momento, c’è qualcosa in questo colloquio che la rende particolarmente nervoso?” in questo modo il clinico trasmette al paziente di aver compreso il suo stato emotivo, di non trascurarlo ma di considerarlo come un elemento di cui si può parlare, il tutto attraverso un atteggiamento empatico.

Un altro elemento fondamentale dell’intervista dinamica è l’importanza che viene attribuita dal clinico alle sensazioni che prova durante il colloquio con il paziente. Queste sensazioni forniscono delle informazioni diagnostiche essenziali sul funzionamento del paziente (controtransfert).

 

 

ANAMNESI PSICODINAMICA

 

Uno degli obiettivi del colloquio è la raccolta anamnestica. Essa dovrebbe portare alla raccolta di quelle informazioni necessarie alla formulazione sia della diagnosi descrittiva sia della diagnosi psicodinamica. Per raggiungere tale scopo il clinico deve mantenere un atteggiamento di flessibilità con uno stile di conversazione che permette sia di ottenere informazioni su fatti specifici come i sintomi, la storia familiare, gli eventi stressogeni, l’esordio della sintomatologia, la sua durata, la stagionalità etc. sia informazioni che emergono dal flusso associativo che naturalmente derivano dai processi di pensiero del paziente. Tutto questo viene favorito da un clima di ascolto attivo e non aggressivo del paziente in cui esso si possa sentire libero di esprimersi liberamente. Questo non significa necessariamente mantenere uno stile asciutto di astinenza e silenzio passivo che potrebbe essere vissuto dal paziente come un atto aggressivo nei suoi confronti. Il clinico otterrà molte più informazioni assumendo un atteggiamento di compartecipazione attiva nella relazione con il paziente. Per questo motivo gli interventi iniziali del clinico dovrebbero essere di facilitazione rispetto al discorso del paziente con verbalizzazioni come “La prego mi dica di più” oppure “deve essere stata un’esperienza davvero sconvolgente” oppure “potrebbe dirmi di più”.

Il clinico è un po’ come se possedesse una sorta di telescopio con il quale può ingrandire determinate aree per metterle a fuoco oppure spostarsi per perlustrare un’altra zona dello spazio associativo del paziente. Attraverso questo atteggiamento flessibile lo psicologo dinamico permette al paziente di spaziare liberamente e associativamente e contemporanemente focalizzarsi su aspetti ed eventi specifici raccogliendo una gran quantità di informazioni sia sulla storia del paziente sia sulla sua attività mentale.

Partendo dal presupposto che la mente tenta di stabilire l’ordine nel caos il clinico dovrebbe inoltre prestare attenzione alla sequenza temporale con cui il paziente narra gli eventi. Sequenza che difficilmente è casuale. Pertanto nel colloquio il passato si ripete nel presente e lo psicologo dovrebbe accompagnare il paziente a narrare delle esperienze sia infantili che adolescenziali al fine di potersi fare un quadro quanto più completo possibile ad esempio attraverso frasi del tipo “secondo lei quanto di quello che mi ha appena raccontato può essere collegato con esperienze da lei vissute durante l’infanzia/adolescenza?”.

Dopo un primo momento in cui il clinico lascia al paziente “campo libero” per raccontarsi è possibile formulare domande più specifiche al fine di ottenere le informazioni necessarie per la formulazione di una diagnosi descrittivo-nosografica secondo le linee guida internazionali del DSM-IV-TR o dell’ICD-10.

Tutte le informazioni ottenute permettono di fornire un quadro quanto più completo possibile sullo stato sintomatologico del paziente, sul suo funzionamento mentale, sulle sue resistenze e così via.

Un gran numero di informazioni viene dunque comunicato durante il colloquio, alcune verbalmente e consciamente altre attraverso il comportamento non verbale e dunque inconsciamente. Questi dati sono essenziali in quanto comunicano al clinico quegli elementi che il paziente vuole (inconsapevolmente) mantenere celati. Freud nel 1901 scrisse:

 

quando mi posi il compito di portare alla luce ciò che gli uomini nascondono, non mediante la costrizione dell’ipnosi ma servendomi di ciò che essi dicono e mostrano, ritenevo quel compito più difficile di quanto in realtà non sia. Chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere si convince che ai mortali non è possibile celare nessun segreto. Chi tace con le labbra chiacchiera con la punta delle dita, si tradisce attraverso tutti i pori. Perciò il compito di render coscienti le cose più nascoste dell’anima è perfettamente realizzabile (pag. 364).

 

Freud considerava quindi il comportamento non verbale come una delle strade principali per arrivare all’inconscio.

 

ESAME DI STATO MENTALE

 

L’esame di stato mentale è una sorta di fotografia che il clinico scatta nella sua mente quando incontra il paziente. Esso mette in evidenza come il paziente funziona nel qui ed ora e comprende informazioni sull’orientamento del paziente nello spazio e nel tempo, sulla presenza o meno di disturbi formali del pensiero, sugli stati emotivi che vengono forniti etc.

L’esame psichico si struttura nel seguente modo:

 

Dati rilevabili all’osservatore

 

Aspetto e abbigliamento: adeguato, curato, trascurato, eccentrico;

atteggiamento: collaborante, reattivo, passivo, immobile, rigido, coartato, eccitazione psicomotoria, stereotipia.

 

 

TEST PSICOLOGICI

 

Oltre al colloquio clinico esistono alcuni strumenti testali che permettono al clinico di ottenere informazioni preziose sul funzionamento del paziente. In particolar modo i test psicologici proiettivi come il Rorschach o il Thematic Apperception Test possono fornire informazioni sull’inquadramento diagnostico psicodinamico.

Il test di Rorschach si compone di dieci tavole che presentano macchie di inchiostro simmetriche. L’obiettivo è quello di presentare al paziente degli stimoli ambigui che permettono di far emergere molto del mondo interno del soggetto tramite le interpretazioni date alle forme amorfe di cui sono costituite le macchie. Le risposte date dal paziente vengono successivamente codificate attraverso delle linee guida internazionalmente riconosciute che permettono di giungere ad una comprensione diagnostica psicodinamica del paziente.

Il TAT funziona secondo un principio similare a quello del Rorschach. Si compone di una serie di disegni e xilografia che raffigurano persone o situazioni che presentano differenti gradi di ambiguità che permettono ai pazienti un buon grado di libertà nelle loro risposte. Ai soggetti viene richiesto di inventare una storia che possa descrivere ciascuna tavola. In questi racconti i pazienti proiettano il loro mondo interno, le loro paure, i loro desideri le fantasie e i conflitti.

Non sempre sono necessarie somministrazioni testali, essi si possono rilevare utili in quelle situazioni in cui i pazienti sono laconici e particolarmente guardinghi.

Naturalmente è possibile anche utilizzare test maggiormente strutturati come la WAIS-R che fornisce informazioni non solo sul QI ma sul funzionamento cognitivo del paziente e sul suo stile di funzionamento del pensiero.

 

LA DIAGNOSI PSICODINAMICA

 

La valutazione psicodinamica è un processo complesso che tramite il ragionamento clinico e l’eventuale utilizzo di strumenti testologici dovrebbe portare alla formulazione di una diagnosi descrittiva basata sui criteri del DSM-IV-TR o dell’ICD-10 e a una diagnosi psicodinamica fondata sul funzionamento del paziente in relazione alla sua storia di vita. La prima formulazione diagnostica ha lo scopo di fornire un inquadramento nosografico corretto secondo criteri riconosciuti a livello internazionale, la seconda permette al clinico di creare un quadro maggiormente descrittivo in riferimento alle caratteristiche di funzionamento del paziente.

Entrambe risultano essenziali al fine di impostare un percorso terapeutico. Come sostenuto pocanzi la diagnosi si fonda sul ragionamento clinico. Esso permette ad esempio di comprendere come i cinque assi che costituiscono l’ossatura del DSM interagiscono fra loro.

Una diagnosi psicodinamica completa dovrebbe comportare la valutazione del paziente in base alle caratteristiche dell’Io, alle relazioni oggettuali, al funzionamento del Sé e alla struttura dell’attaccamento.

Per quanto concerne le caratteristiche dell’Io una della valutazioni da effettuare è la verifica della forza dell’Io. Essa può essere inferita sia dalla storia lavorativa del paziente sia dalle sue modalità relazionali. Ad esempio persone che sono in grado di mantenere un lavoro e delle relazioni stabili nel tempo hanno un Io struttualmente più forte di persone che non riescono in tali attività. Le informazioni sul funzionamento dell’Io permettono inoltre al clinico di pianificare il tipo di psicoterapia appropriata in base alla mentalità psicologica del paziente.

Una parte fondamentale della valutazione diagnostica riguarda il funzionamento difensivo del paziente e la relazione che l’Io intrattiene con il Super-Io. In entrambi i casi ci si può chiedere quale sia il grado di flessibilità/rigidità.

Per quanto concerne le relazioni oggettuali il clinico dovrebbe chiedersi quali movimenti avvengono nel mondo interno del paziente e quali relazioni dell’infanzia si stanno ripetendo nel presente in forma stereotipata e rigida. Le relazioni oggettuali derivano delle teorie kleiniane sui meccanismi di introiezione e proiezione attraverso i quali il paziente entra in contatto con la realtà.

Il clinico dovrebbe inoltre valutare la coesione del Sé del paziente, verificando il grado di frammentazione o integrazione sia in condizioni normali sia sotto stress. Lo psicologo dovrebbe inoltre valutare la bontà dell’autostima del paziente e la presenza o l’assenza di una continuità del Sé (l’identità del paziente è sufficientemente stabile?) e dei suoi confini (il paziente è in grado di di differenziare i propri contenuti mentali da quelli altrui?).

Elemento essenziale da valutare è la percezione che il paziente ha del suo corpo (i confini corporei sono mantenuti? Sono presenti dispercezioni somatiche?).

La valutazione dell’attaccamento del paziente è fondamentale per valutare i suoi modelli operativi interni in base alle seguenti quattro categorie: sicuro/autonomo, insicuro/distanziante, preoccupato, disorganizzato.

 

FURMULAZIONE DI UNA DIAGNOSI PSICODINAMICA

 

Per una corretta formulazione diagnostica psicodinamica sono necessari tre componenti che devono interagire fra di loro. Innanzitutto si dovrebbe partire con una formulazione che prevede una rapida descrizione del quadro clinico e del motivo che ha portato il paziente a chiedere una consultazione. In secondo luogo si dovrebbe formulare un’ipotesi su come gli elementi biologici, intrapsichici e socioculturali interagiscono contribuendo a determinare il quadro clinico e sintomatologico.

Nell’ultima fase si dovrebbe formulare un’ipotesi terapeutica sul funzionamento del paziente sia dal punto di vista del processo terapeutico sia prognostico.

 

Il signor F. è un uomo di 45 anni, celibe laureato in giurisprudenza. Professionalmente affermato in uno studio legale di prestigio si presenta per una valutazione lamentando un disagio che definisce “esistenziale” ma del quale non riesce a spiegarsi le origini. Giunge al primo colloquio con quindici minuti di anticipo. Vestito impeccabilmente con abiti sartoriali, siede in sala d’attesa composto. Durante il colloquio parla lentamente, lo sguardo sembra assente. L’eloquio è organizzato, fluente ed informativo. Non si ravvisano disturbi formali del pensiero.

Inizia raccontando del suo lavoro da avvocato, di come lo svolge in maniera metodica, quasi seguendo ‘dei rituali’ che incominciano al mattino quando “scendo dal letto, mi faccio la doccia poi preparo il caffè che bevo nella tazza che ho preparato la sera prima capovolta sul tavolo della cucina così che non prenda polvere durante la notte, poi mi vesto, come ultima cosa mi annodo la cravatta con un nodo doppio ed esco”. Il lavoro si svolge per la maggior parte del tempo in un prestigioso studio legale che si occupa di fusioni aziendali.

La storia familiare di F. è estremamente intricata. La madre rimane incinta quando era poco più che adolescente di un uomo di origine francese di qualche anno più grande di lei in Italia per terminare il percorso universitario. All’inizio non riconosciuto, F. incontra per la prima volta il padre quando aveva cinque anni. “Anche se ero piccolo mi ricordo quella scena come se fosse accaduta ieri. Con mia madre siamo andati a Lione, in treno, perché non potevamo permetterci una macchina. Alla stazione sono sceso dalla carrozza e mi ricordo il gradino, come era alto quel gradino! Per arrivare a terra quasi bisognava saltare. Sulla banchina c’era quest’uomo, alto, magro, molto distinto che portava un cappello grigio. Mi ricordo che il mio cuore batteva fortissimo. Dopo quell’incontro ho iniziato a frequentare mio padre regolarmente. Lui era sposato e aveva tre figli. Quando andavo a casa loro, una bella casa, non come quella in cui abitavo con mia madre, non mi sentivo a mio agio. Gli altri mi guardavano come se fossi un alieno e mi avevano battezzato con il nomignolo di ‘straniero’.

Il padre, figlio unico di una famiglia agiata, viene descritto da F. come una figura distante, anaffettiva concentrato solamente sui soldi e con il vizio di bere. Deceduto quando F. aveva 30 anni per un infarto improvviso non ha lasciato alcun testamento e questo ha portato il paziente ad intraprendere una lunga battaglia legale per “avere quello che mi spetta”, battaglia che al momento della consultazione non ha ancora visto una conclusione.

La madre, vivente, è descritta come una persona molto ansiosa ed emotivamente fragile “da bambino la vedevo spesso piangere quando pensava di essere da sola. Anzi, io mi nascondevo e la spiavo”.

L’infanzia del paziente è caratterizzata da un estremo senso di solitudine ed estraniamento, con continui spostamenti dall’Italia alla Francia. “A volte mi svegliavo durante la notte e non sapevo dov’ero. Mi spaventavo, dovevo accendere la luce e solo dopo aver osservato gli oggetti nella stanza mi calmavo”.

Durante l’adolescenza incominciano a manifestarsi quelli che il paziente chiama “i miei rituali” che consistevano nel contare un certo numero di volte fino al numero 28, mentre camminava per strada, oppure lavarsi le mani tre volte prima di mettersi a tavola “iniziando sempre prendendo il sapone con la sinistra e bagnando prima la mano destra”. Rituali che persistono ancora nel momento della consultazione.

Il signor F. vive in un appartamento in affitto in una zona centrale della città. Oltre alle persone con cui lavora non ha relazioni sociali intime a parte un amico dell’università che definisce “il mio confessore”. I rapporti con l’altro sesso sono per lo più inesistenti e occasionali. Riferisce di aver avuto una sola relazione affettiva importante quando aveva vent’anni con una ragazza conosciuta all’università. Relazione interrotta dopo due anni in seguito ad un tradimento.

Il signor F. si descrive come una persona molto metodica, ordinata fin quasi alla maniacalità, con una preoccupazione verso la pulizia e l’igiene. L’alimentazione è poco varia, ogni giorno della settimana ha il suo menù “in questo modo non resto mai senza scorte per qualche imprevisto o dimenticanza”.

Durante il colloquio emergono vissuti ansiosi che sono solo parzialmente riconosciuti dal paziente. Sono presenti somatizzazioni in particolar modo a livello gastro-intestinale che il paziente fa coincidere con l’elevato stress che vive sul lavoro.

 

Dalle informazioni presentate durante il colloquio di consultazione è possibile formulare sia una diagnosi descrittiva sia una diagnosi psicodinamica.

La diagnosi descrittiva verrà fatta utilizzando i criteri del DSM-IV-TR mentre per la diagnosi psicodinamica si utilizzerà il PDM.

 

Dal punto di vista descrittivo è possibile effettuare diagnosi di Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità in quanto il paziente presenta un quadro pervasivo di preoccupazione per l’ordine, il perfezionismo, il controllo mentale e interpersonale il tutto a spese della flessibilità. Tale quadro compare nella tardo adolescenza e abbraccia una varietà di contesti. In particolar modo il paziente presenta un’eccessiva attenzione per i dettagli, le regole, le liste, l’ordine, l’organizzazione e gli schemi, mostra un’eccessiva dedizione al lavoro che lo porta ad escludere le attività di svago e le amicizie. È estremamente coscienzioso e scrupoloso con una forte tendenza alla rigidità. Il disturbo di personalità fa da base per la presenza di un Disturbo D’ansia Generalizzato con Somatizzazioni.

Per quanto concerne la diagnosi dinamica il paziente presenta della difese ossessive di isolamento affettivo e intellettualizzazione con una sorta di riluttanza a provare degli stati emotivi che lo possono far sentire ‘fuori controllo’. Freud fece risalire questo tipo di funzionamento psicologico ai primi conflitti diadici (1913, La disposizione alla nevrosi ossessiva), mettendo in relazione la testardaggine e la puntigliosità con i conflitti relativi all’igiene e ai bisogni evacuativi.

Il paziente può essere descritto come una sorta di ‘macchina vivente’ (Reich, 1933 Analisi del carattere). L’identificazione inconscia sembra essere stata effettuata con la figura paterna vissuta dal paziente come eccessivamente esigente e castrante. Questo porta il paziente a considerare le espressioni della propria emotività come delle forme di immaturità non accettabili portandolo a sopravvalutare gli aspetti razionali. Le emozioni sono dunque accettate solamente nel momento in cui sono logicamente o moralmente giustificate. Esiste una paura latente degli impulsi che il paziente vive come inaccettabili questo lo porta a sviluppare dei pensieri ossessivi e delle azioni compulsive come tentativo di annullare e contrastare impulsi e desideri inconsci legati alla distruttività, all’avidità e alla sporcizia. I sensi di colpa verso i desideri inaccettabili sono estremamente forti spingendo la coscienza ad essere rigida e punitiva. Per evitare di sentire disagio legato alla colpa si impone degli standard lavorativi e di vita molto elevati che portano il paziente a seguire le regole in modo letterale perdendosi nei dettagli e nella scrupolosità. A causa di tutto quanto viene represso il paziente vive un costante stato di tensione interna che gli impedisce di vivere momenti di intimità e socialità.

Gli affetti principali che il paziente sperimenta sono la rabbia, la colpa, la vergogna e la paura con la credenza che la propria aggressività sia pericolosa e che debba quindi essere controllata attraverso delle difese complesse quali l’isolamento degli affetti, la formazione reattiva, l’intellettualizzazione, l’atteggiamento moralizzatore e l’annullamento retroattivo.

Seguendo i dettami del PDM il paziente presenterebbe un Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità con alla base un Disturbo d’Ansia.

 

Durante la trattamento il terapeuta dovrebbe aiutare progressivamente il paziente ad entrare nel suo mondo interno, uno spazio che il soggetto vede come estremamente pericoloso e popolato da oggetti mostruosi, aiutandolo a prendere contatto con le sue emozioni, con i suoi desideri ed istinti, sempre tenendo conto che pazienti con questa particolare struttura di personalità spesso possono ingaggiare una sorta di combattimento con il terapeuta. Non è da escludere al principio un supporto farmacologico, soprattutto se si tiene conto degli aspetti biologici di familiarità per i disturbi d’ansia (madre) e dell’umore (padre).

Attraverso un approccio complesso alla diagnosi che tiene conto sia degli aspetti nosografico/descrittivi sia degli aspetti psicodinamici è possibile ottenere un quadro completo del funzionamento del paziente che può guidare il clinico inizialmente nell’impostazione terapeutica e successivamente nelle modalità di intervento avendo sempre in mente il paziente.

CategorySenza categoria
Scrivi un commento:

*

Your email address will not be published.

Potete contattarmi al:        349.60.00.202